martedì 23 aprile 2024

Meteoropatia


 
Ho sonno
e non riesco a dormire.
Ho gli occhi spalancati,
ma sono al buio.

Non riesco neppure
a pensare,
se pensassi
mi addormenterei ...

Ho le gambe nervose,
le muovo di continuo,
cambio posizione,
ma non prendo sonno.

Sento il tempo
che sta cambiando
e sono molto nervoso ...

... maledetta meteoropatia ...

 

lunedì 22 aprile 2024

Frederick Forsyth: Il Giorno Dello Sciacallo



É il 1963. L'OAS, l'organizzazione eversiva francese, É ridotta alla disperazione. Nonostante sei tentativi, i militari ribelli non sono riusciti a realizzare il loro primo obiettivo: eliminare il generale de Gaulle, l'uomo che, a loro avviso, ha tradito la Francia, consegnando l'Algeria agli Algerini.
L'OAS, assediata dai servizi di sicurezza della nazione, è sul punto di disintegrarsi. Ma il suo capo escogita un piano a prova di errore, basato su un sicario talmente abile nel suo mestiere da essere sconosciuto alle polizie di tutto il mondo: una specie di uomo invisibile, capace di passare indenne attraverso gli sbarramenti protettivi eretti intorno alla persona del Presidente, di giungere sul luogo dell'appuntamento per compiere la sua sinistra missione e infine dileguarsi nell'anonimato.
Benché tutti conoscano la conclusione della vicenda, l'abilità eccezionale con cui l'autore sa fondere realtà e fantasia ci tiene col fiato sospeso fino all'ultimo istante di questa drammatica caccia all'uomo-ombra.
 
Anatomia di un complotto.
A Parigi, alle sei e quaranta di un mattino di marzo, faceva freddo:
e sembrava ancora più freddo, poiché un uomo stava per essere
fucilato dal plotone di esecuzione. A quell'ora, l'11 marzo 1963, un
colonnello dell'aviazione francese stava davanti al palo piantato nella
ghiaia gelata del cortile della prigione militare di Fort d'Ivry, mentre
gli avvolgevano una benda intorno agli occhi. Il crepitare dei fucili
non provocò alcun fremito sulla superficie della città che stava 
svegliandosi, solo il battito d'ali dei piccioni che si alzarono in volo 
verso il cielo ancora grigio.
La morte del tenente colonnello Jean-Marie Bastien-Thiry, il capo
di una banda di terroristi dell'OAS che aveva cercato di uccidere il
Presidente della Repubblica francese, avrebbe dovuto porre fine agli
attentati alla vita del Presidente stesso. Per un gioco del destino, essa,
invece, ne segnò un inizio, e per spiegarne il motivo É necessario 
risalire alla sera del 22 agosto 1962, il giorno in cui Bastien-Thiry aveva
deciso che il generale Charles de Gaulle doveva morire.
Il sole era finalmente calato dietro le mura del palazzo dell'Eliseo,
e lunghe ombre si proiettavano attraverso il cortile, portando un gradito 
sollievo alla calura estiva. Mentre gli abitanti della città si accingevano
a fuggire verso il relativo refrigerio dei fiumi e delle spiagge,
la riunione di gabinetto proseguiva dietro la facciata decorata del
palazzo. Sulla ghiaia scura del cortile prospiciente, sedici lunghe e nere
Citroen DS berlina aspettavano una in coda all'altra.
Fu soltanto alle diciannove e trenta che i ministri scesero alla 
spicciolata la scalinata per salire a bordo delle rispettive auto. Soltanto
due Citroen, alla fine, rimasero nel cortile.
Alle diciannove e quarantacinque apparve Charles de Gaulle, che
portava come sempre un doppiopetto color grigio-antracite e la cravatta
scura, e scese lentamente le scale con la moglie Yvonne, dirigendosi 
verso la prima Citroen. L'auto, su cui batteva l'insegna del Presidente
della Repubblica francese, era guidata da Francois Marroux, un
autista della polizia con nervi d'acciaio, capace di guidare velocemente
e con assoluta sicurezza. La moglie del Presidente prese posto sul 
sedile posteriore e il generale si accomodò accanto a lei. Il colonnello
Alain de Boissieu, loro genero, prese posto sul sedile anteriore, 
accanto a Marroux.
Sulla seconda auto, Henri Djouder, l'imponente guardia del corpo
di quel giorno, sistemò la sua pesante rivoltella sotto l'ascella sinistra,
poi si lasciò cadere sul sedile anteriore, accanto al guidatore, mentre
il commissario Jean Ducret, capo dei servizi di sicurezza del Presidente,
prese posto dietro di lui.
Appostati sul lato occidentale del cortile, due motards, i poliziotti
motociclisti dal caratteristico casco bianco, fecero rombare i loro motori 
e precedettero il piccolo corteo in Faubourg St-Honoré e di lì in
Avenue de Marigny. Dietro la fila di ippocastani, un giovane a cavallo
di una motoretta, dopo aver osservato il corteo che passava, si scostò
silenziosamente dalla cordonatura del marciapiede e si accodò. Il traffico
era normale, per una fine settimana di agosto come quella, e il passaggio
dell'auto presidenziale non era stato preannunciato. Soltanto
l'ululato delle sirene dei motociclisti segnalava l'avvicinarsi del corteo
agli agenti addetti al traffico, i quali dovevano sbracciarsi e fischiare
freneticamente per arrestare il flusso di auto e mezzi pubblici.
Il corteo procedeva sempre più velocemente, ma l'uomo sulla motoretta,
che si era messo nella scia delle auto ufficiali, non faticava a tenergli 
dietro. Quando queste giunsero nell'ampio Boulevard des Invalides,
l'uomo cap¡ che il corteo sarebbe uscito da Parigi. Lasciò andare
la manopola dell'acceleratore e deviò verso un caffÉ sull'angolo. A
gran passi raggiunse il telefono in fondo al locale e formò un numero.
Il tenente colonnello Bastien-Thiry, che stava aspettando quella 
telefonata in un bar del sobborgo di Meudon, ascoltò per qualche secondo,
mormorò: “ Benissimo, grazie” e riappese il ricevitore. A passi
lenti raggiunse il marciapiede davanti al locale, sfilò il giornale che 
teneva arrotolato sotto il braccio e con cura lo spiegò due volte.
Dall'altro lato della strada, una giovane donna lasciò ricadere la
tendina di pizzo di una finestra del suo appartamento e si rivolse ai
dodici uomini sparsi nella stanza. “ É il percorso due” disse.
Gli uomini uscirono dal retro della casa raggiungendo le automobili.
Erano le diciannove e cinquantacinque.
Bastien-Thiry aveva trentacinque anni, era sposato con tre figli e
lavorava al ministero dell'aviazione. Dietro la facciata convenzionale
della sua vita professionale e familiare, l'uomo covava un profondo
rancore nei confronti di Charles de Gaulle che, a suo giudizio, cedendo
l'Algeria ai nazionalisti algerini, aveva tradito la Francia e gli uomini
che l'avevano richiamato al potere nel 1958. Molte migliaia di persone
condividevano le sue idee, a quel tempo, ma pochi, in proporzione,
erano i fanatici membri dell'OAS, l'Organisation de l'Armée SecrÉte,
che avevano giurato di uccidere de Gaulle e di abbattere il suo governo.
Bastien-Thiry era uno di questi.
Bastien-Thiry aveva scelto personalmente il luogo dell'attentato: una
lunga strada diritta, l'Avenue de la Libération, che portava all'importante
crocevia di Petit-Clamart. In base al piano, un gruppo di franchi
tiratori avrebbe dovuto aprire il fuoco quando l'auto presidenziale fosse 
giunta a circa duecento metri dal crocevia. Gli uomini si sarebbero
dovuti appostare dietro un furgone parcheggiato sul ciglio della strada.
Secondo i calcoli di Bastien-Thiry, quando fosse giunta all'altezza
del furgone, l'auto di testa doveva essere crivellata da centocinquanta
pallottole. Appena fosse stata bloccata l'auto presidenziale, un secondo
gruppo di uomini, tra i quali Georges Watin, uno dei più pericolosi 
tiratori dell'OAS, sarebbe dovuto sbucare da una strada laterale per far
saltare in aria con esplosivi, a distanza ravvicinata, l'auto del servizio
di sicurezza. Nel giro di pochi secondi, i due gruppi avrebbero dovuto
sterminare il gruppo presidenziale, per poi raggiungere a tutta velocità
le automobili pronte per la fuga in una strada laterale. Lo stesso
Bastien-Thiry doveva stare di vedetta.
Alle venti e cinque i due gruppi erano appostati. A un centinaio
di metri dal luogo dell'attentato, Bastien-Thiry stava con aria indolente 
vicino a una fermata d'autobus, con il suo giornale in mano. Agitando 
il giornale, avrebbe dato il segnale a Serge Bernier, il capo del
primo "commando", e questi avrebbe trasmesso l'ordine agli altri.
Superato il traffico del centro di Parigi, più congestionato, il corteo
del generale de Gaulle raggiunse la velocità di quasi cento chilometri
orari. Francois Marroux lanciò un'occhiata all'orologio, avvert¡ la 
nervosa impazienza del vecchio generale e spinse ancora più a fondo 
l'acceleratore. I due motociclisti battistrada rallentarono per mettersi in
coda al corteo che, così disposto, stava avvicinandosi all'Avenue de la
Libération. Erano le venti e diciassette.
Un chilometro e mezzo più avanti, Bastien-Thiry stava rendendosi
conto delle conseguenze di un suo grave errore. Per mettere a punto i
tempi dell'attentato, si era servito di un calendario dal quale aveva 
saputo che il ventidue agosto il sole sarebbe tramontato alle venti e 
trentacinque. Il calendario consultato dal colonnello era, però, quello del
1961. Il 22 agosto 1962 il sole tramontava alle venti e dieci. Quei 
venticinque minuti dovevano cambiare la storia della Francia. Alle venti e
diciotto, Bastien-Thiry avvistò il corteo che scendeva rombando per
Avenue de la Libération verso di lui. Freneticamente agitò il giornale.
Sull'altro lato della strada, un centinaio di metri più avanti, Bernier
aguzzò rabbiosamente lo sguardo attraverso la penombra, verso la
figura indistinta accanto alla fermata d'autobus. “ Ha già agitato il
giornale, il colonnello?” domandò, senza rivolgersi a nessuno in 
particolare. Non aveva ancora finito di parlare che il muso da squalo
della vettura presidenziale apparve improvvisamente. “Fuoco!” gridò.
Gli uomini aprirono il fuoco non appena il corteo passò davanti a loro.
Le dodici pallottole che si conficcarono nell'auto dimostrarono l'abilità
dei tiratori. La maggior parte di esse colpirono la vettura da
tergo. Due copertoni furono centrati e i pneumatici, pur essendo a prova 
di foratura, per l'improvvisa perdita di pressione fecero sbandare la
vettura in corsa e slittare le ruote anteriori.
Numerose pallottole trapassarono la carrozzeria dell'auto e una andò 
a infrangere il finestrino posteriore, passando a poche dita dal naso
del Presidente. Dal sedile anteriore, il colonnello de Boissieu ruggì:
“State giù!” rivolto ai suoceri. Madame de Gaulle abbassò la testa,
ma il generale ribattè gelidamente: “Ma come, ricominciano?”  e si
voltò a guardare dal finestrino posteriore.

 

sabato 20 aprile 2024

Massimo Bernardi, I fantasmi della fabbrica alta

Il giovane Alex, per completare la sua tesi di laurea in Archeologia Industriale, si reca a Schio per fare un sopralluogo alla Fabbrica Alta dell'ex Lanificio Rossi. Tra i ruderi di quel grande edificio abbandonato scopre vivere la Betina, una bambina di un'altra epoca, vittima di un incantesimo. È l'inizio di un'avventura che travalica il tempo, tra la seconda metà dell'Ottocento e i giorni nostri, a cui prendono parte personaggi alquanto bizzarri. Tutti sembrano avere identità e ruoli mutevoli, che cambiano da un piano temporale all'altro. Tutti nascondono dei segreti e sono in cerca di qualcosa, ma per trovarlo devono fare i conti con quello che accadde a Schio in un giorno ben preciso del passato. Un mistero impalpabile aleggia nell'aria, e i pezzi che compongo il puzzle sembrano ricondurre a un enigmatico giaguaro di pietra, dagli occhi di un verde fosforescente e messo a guardia di una grotta.

Nerina Ardizzoni: La storia



Soffia il vento della storia
e dipana il filo delle generazioni
alla nipote, alla figlia, alla donna.
La tua sete di sapere placata al pascolo,
pallottole contro scioperanti per rapire l'amore,
vendette per bruciare il presente,
una miniera a far crollare i sogni.
E lampi di speranza, la liberazione,
la disillusione poi e il presente.
La parola, testimonianza,
impronta indelebile nel cuore.
La consapevolezza oggi,
la luce della comprensione
per anni di disagio, di dolore
e la storia era lì, in un cassetto
fra foto ingiallite di volti familiari.

 

venerdì 19 aprile 2024

Capitolo 11: Lunedì 22 maggio 2017, ore 7.30


La sveglia militare echeggia in tutta la sua potenza nella stanza illuminata da fioca luce. Stefano appoggiato sulle braccia, ancora al tavolo, sta dormendo pesantemente. Ci vuole qualche secondo perché realizzi che è una chiamata sul cellulare... e qualche secondo perché apra gli occhi e lo afferri.
«Ste, dormivi eh? Chi la fa l’aspetti. L’Iside ha riferito che rientra verso le 9 e che lei e Vudi ti attendono per il caffè. Ciao Pulitzer, fa a modo, eh...»
Ora Stefano è lucido, mai stato più lucido di adesso. Sta cominciando a mettere in ordine tutte le tessere del puzzle, ancora qualcuna e il quadro è pronto. Sono appena passate le sette e trenta, raccoglie tutte le carte sparse sul tavolo, poi prende il foglietto con gli appunti, gli dà una rapida occhiata, emette un grugnito e lo infila in una tasca chiusa con cerniera, se dovesse scordare le note, lì è sicuro di non perderlo. E via, verso il Villaggio Giardino, senza passare per il centro, linea diretta, pedalando come un pazzo e, come sempre, evitando le piste ciclabili che rallentano. 
Alle 8.30 è già in postazione, teso come una corda di violino, appostato per il rendez vous con l’Iside.
 

Appena lo vede, Vudi comincia ad abbaiare. Si impunta con le zampe anteriori, si arrotola tutto attorno al filo del guinzaglio tenendolo stretto fra i denti e guarda con occhi inferociti lo straniero. L’Iside non si scompone, infila una mano in tasca, estrae una manciata di crocchette e, tenendo a debita distanza Vudi, le dà a Stefano.

«Dagliene una per volta tenendole fra pollice e indice, tranquillo, non morde.»

E così Stefano fa. Vudi, che ha osservato tutto e sa cosa succederà adesso, ha già smesso la sua pantomima, si è accovacciato a culetto all’aria con coda roteante, zampe anteriori abbassate e muso in punta. Appena Stefano prende con due dita una crocchetta, è già lì, un fulmine. Si erge sulle zampe posteriori, come se fosse in piedi, poi allunga quelle anteriori verso di lui e le frega fra di loro, come per dire dammi il mio boccone, ti prego. Quando le crocchette sono finite, Vudi e Stefano sono amici, adesso si può entrare in casa senza problemi.
Stefano è in cucina a casa dell’Iside, la moka sta gorgogliando, segno che il caffè sta salendo, il profumo è inconfondibile. Vudi girovaga sul pavimento annusando qualsiasi pulviscolo incontri, nella speranza di trovare qualche briciola da ingurgitare. 
«E’ un cane particolare» dice l’Iside «credo abbia uno sdoppiamento della personalità, si crede un pesce rosso, mangerebbe di continuo. Io lo tengo a stecchetto, la sua pappa solo a pranzo, per il resto della giornata rompe le scatole. Ho provato a dargli da mangiare anche la mattina e la sera, ma lui rompeva ugualmente e in più ingrassava. Almeno così resta entro i 5kg.»
«Ma quando siamo venuti la volta scorsa io e Luca, lui non c’era...»
«Lo avevo parcheggiato da Lara che lo adora, così ci avrebbe lasciato chiacchierare in pace.»
L’Iside mette un piattino di biscotti caserecci davanti a Stefano, poi versa il caffè, abbondante. Sul tavolo lo zucchero e il bricco del latte. Stefano versa un po’ di latte nella tazzina, giusto per macchiare il liquido nero, questa notte ne ha abusato abbondantemente, poi prende un biscotto e glielo immerge, lo porta alle labbra, gli dà un morso e chiude gli occhi. 
«Sembrano quelli che faceva la mia nonna, grazie.»
Finiti i convenevoli e la colazione, sempre restando in casa, la cucina per gli anziani, l’Iside dopo aver sparecchiato, si siede anche lei e guarda Stefano interrogativa.
«Iside, guarda, possiamo darci del tu vero? Bene. Allora, ho un paio di cose da verificare, dovrei parlare con coloro che abitano ai primi due piani, ma prima ho una domanda per te, che conosci bene Lara. Come abbiamo saputo i due ragazzi avevano venduto tutto il superfluo, tenendo solo il necessario. So che la polizia ha trovato macchie riferibili a un vaso di fiori sul balcone piccolo, sai di cosa si tratta?»
«Deve essere il segno della miseria, una pianta, di quelle verdone violacee, l’avevo regalata io qualche anno fa a Lara, non avendo bisogno di molta manutenzione speravo le facesse compagnia e un po’ perché mi piaceva una nota di colore in quel balcone così triste. Ma, scusa, quando la polizia è salita su, non c’era?»
«Ecco, vedi, dal referto della polizia risulta che ci fosse solo la macchia calcarea sul pavimento, quindi penso che possa essere voltata di sotto con Giorgio.»
«Ma è impossibile, era posizionata in un angolo a fianco della porta finestra, ben lontana dalla ringhiera. Per volare di sotto bisognava buttarcela.»
E qui Stefano si illumina. L’Iside ha risolto una parte del mistero. Allora le chiede se, per il momento, possono fare un giro in giardino, intanto che viene un buon orario per andare a suonare ad altri campanelli. L’Iside accetta di buon grado, mette il guinzaglio a Vudi, che quando c’è da uscire non si fa certo pregare, e assieme a Stefano scendono in ascensore fino a terra. La zona non è più transennata, anche se è stato chiesto agli inquilini di non toccare nulla e, per adesso, di non rasare ancora il prato. Stefano e Iside cominciano a gironzolare, Vudi dal canto suo annusa e fa qualche pisciatina qua e là. Raggiungono un punto centrale, circa a una decina di metri dal muro del palazzo, qui, per terra, ci sono i resti di una pianta, guarda caso di miseria. L’Iside la riconosce, è la stessa che ha regalato a Lara, la riconosce sia perché era una confezione particolare, un vaso sottile alto pochi centimetri poggiato su un sottovaso giallo a forma di piatto piano, sia perché Lara le aveva detto che qualche giorno prima aveva dovuto tagliare qualche foglia a metà per via di un insettino che le stava rovinando. E poi il sottovaso, giallo, era poco più in là.

“Ma allora, che senso ha avuto buttare la pianta giù dal balcone, non dava fastidio, perché?” si chiede silenziosamente Stefano.


Piano primo, Iside suona il campanello dell’appartamento sulla destra, alla domanda che segue risponde semplicemente «Io». La porta si apre e la signora la saluta, poi dopo alcuni convenevoli, Iside spiega all’amica cosa sia venuto a fare Stefano. La scena si ripete altre tre volte, quattro sono gli appartamenti che si affacciano su quel lato del palazzo, due al primo e due al secondo piano. In tutti Stefano pone la stessa domanda e in tutti ottiene più o meno la stessa risposta: 
«Quella notte abbiamo sentito prima un tonfo sordo, secco, come una portiera o un cofano che venivano chiusi violentemente, poi, dopo alcuni minuti, una specie di boato, abbiamo creduto di nuovo al terremoto, ma è stato cortissimo e intensissimo, ci siamo affacciati e abbiamo visto, dato che il giardino è illuminato tutta la notte, che Giorgio era là, immobile, sdraiato sopra la grata, sembrava dormisse. Siamo scesi, aveva la bocca spalancata, gli occhi sbarrati, fermi e fissi. Abbiamo chiamato la polizia.»
Stefano ringrazia l’Iside per la cortesia, poi inforca la bici e rientra alla base, non prima di aver comunicato a Guicciardi che c’erano importanti novità, che dovevano assolutamente vedersi.
 

Ore 13, in tre sono seduti a un tavolo del ristorante dove si sono riuniti. Sono riusciti ad avere un posto un po’ in disparte dove poter parlare con calma, nascosti dietro a una specie di separé... 
Oltre al commissario e a Stefano c’è anche Claudio Balboni, che oggi sostituisce Foca. La sua forza è la discrezione, se Guicciardi gli dice di tenere la bocca chiusa, è meglio di una tomba.
Hanno già ordinato il cibo, un primo e un secondo a discrezione del titolare, una bottiglia di Sorbara Tusini e tanta riservatezza.
Stefano prima ingolla un bicchiere di lambro, poi si schiarisce la gola e sciorina all’amico tutto quello che ha imparato in mattinata.

«Questa è l’idea che mi sono fatto. L’amico aveva deciso di far fuori la moglie. Si era probabilmente accorto che la ringhiera del balcone non era ben salda, quindi aveva portato a casa gli attrezzi e raccontato che gli servivano per fissarla a modo. Faceva un po’ come Penelope, di giorno la stringeva e di notte la allentava. Il suo piano era semplice, una notte di quelle in cui Lara non fosse stata sotto l’effetto del farmaco, avrebbe predisposto il percorso in modo che lei finisse sul balcone piccolo. Qui avrebbe allentato al massimo la bullonatura della ringhiera, in modo che bastasse una minima spinta per farla andare di sotto, poi sarebbe tornato a letto. Nel suo piano Lara sarebbe giunta a cospetto della ringhiera e appena l’avesse urtata, invece di girarsi e tornare indietro, sarebbe precipitata assieme alla stessa. Le cose sono andate diversamente, come sappiamo. Quindi, cosa è successo sul balcone? Appurato che il vaso di miseria è volato di sotto da una posizione impossibile e appurato che invece di Lara è caduto Giorgio, ma non magari mentre stava svitando i bulloni, perché in questo caso sarebbe caduto a faccia in avanti, bisogna capire chi ha buttato il vaso giù e perché, e la posizione di Lara in tutto questo contesto. Dov’era? Ancora a letto perché doveva ancora andare in giro, oppure aveva già finito il giro, oppure ancora in giro per la casa, oppure era sul balcone? Io ho un sospetto, che forse Lara sia arrivata in balcone, che abbia comunque sfiorato la ringhiera non abbastanza da farla volare di sotto, che rientrando sia scivolata sulla pianta di miseria e l’abbia spinta, cadendo, verso la ringhiera sotto la quale sia passata, ricordiamoci che l’Iside mi ha raccontato che era un vaso particolare, bassissimo, alto pochi centimetri e appoggiato a un sottovaso giallo simile a un piatto piano. Quindi il vaso si è infilato sotto la ringhiera ed è volato di sotto, ma il sottovaso è rimasto in balcone. Giorgio, sentendo il tonfo in giardino, crede che Lara sia volata giù, corre in balcone, ma appena è lì, stupito dalla presenza ancora della ringhiera, mette un piede sul sottovaso che è in mezzo al ballatoio, scivola malamente, magari girandosi di spalle, urta la ringhiera e vola giù, uno scherzo del destino. Lara nel frattempo era tornata a letto, ignara di tutto.»
Guicciardi e Balboni hanno ascoltato tutto questo sproloquio a bocca aperta. Finalmente Stefano conclude e si lava l’ugola con un generoso bicchiere di rosso nettare, poi si rilassa, prende un pezzetto di pane, lo immerge nel bicchiere e lo porta alla bocca «Come faceva mio nonno.»

Claudio Balboni, forse ancora sconvolto da quel fiume di parole, guida come una vecchietta, gli altri non parlano. In via della Cella il commissario saluta e ringrazia Stefano:
«Conferenza stampa domattina alle 11.00»